IL MEDICO DI FAMIGLIA CANTASTORIE: LA CONSAPEVOLEZZA DELL’ESSERE PER LA CURA.

La medicina narrativa come strumento essenziale per la medicina di famiglia. 

Pubblicato su Riflessioni Sistemiche N.12 Giugno 2015

Il medico di famiglia cantastorie:
la consapevolezza dell’essere per la cura
Nel mese di giugno è stato pubblicato questo mie breve saggio nel numero 12 della Rivista Riflessioni Sistemiche, organo ufficiale dell’Associazione Italiana di Epistemologia e Metodologia Sistemiche. Questo numero della rivista, che ha un carattere monografico, è intitolato :” Narrazioni” e contiene altri saggi brevi di autori come Giorgio Bert, Stefania Polvani che sono fra i nomi più conosciuti per la Medicina Narrativa a livello nazionale, come Per Luigi Luisi e Fritjof Capra che sono dei nomi internazionali nel mondo della sistemica e della complessità. Io ho avuto l’onore di poter vedere il mio lavoro accanto ai loro contributi.
Rimando al sito www.aiems.eu la possibilità di poter visionare on line tutta la rivista.

 

 

Sono in ambulatorio alla fine di una normale giornata di lavoro. Il telefono ha smesso di squillare, la sala d’aspetto si è finalmente svuotata e sto facendo quasi il conto dei minuti che mi separano dalla sortita dal mio studio. Devo ancora trattenermi, però, per compilare un paio di certificazioni e per questo sto interrogando molto velocemente il mio programma informatico che gestisce le cartelle cliniche dei miei pazienti. Le videate si succedono rapide e, come può accadere per la fretta, un tasto schiacciato per errore mi dirotta sull’archivio dei pazienti deceduti. Era da molto tempo che non aprivo questa pagina, quasi mi ero dimenticato dell’esistenza… oramai con il collegamento telematico, quando l’anagrafe registra un decesso, il paziente muore di fatto anche virtualmente, così, in maniera automatica, venendo spostato nell’archivio “deceduti”.
E’ veramente strano come il cervello si comporti con le persone, in questo caso pazienti, con cui hai interagito per anni, una volta che sono venuti a mancare. Spariscono, svaniscono, si confondono e si fondono nella nebbia del ricordo che sfuma, come le immagini che precedono il sonno. Eppure sino a poco o molto tempo prima erano lì, occupavano quelle sedie davanti alla mia scrivania ognuno con le proprie richieste, con le proprie pretese, con sorrisi e pianti. Scorro in maniera quasi automatica il lungo elenco di nomi con a fianco le date di nascita e di morte e la inesorabile crocetta nera, ma ecco che man mano che si susseguono le righe, da quei nomi cominciano a formalizzarsi nella mia mente delle immagini, dei volti….. Ah! Ecco Antonietta che per anni non mi ha dato pace con la sua ” pancia gonfia”: in ambulatorio almeno due volte al mese, mettendosi di profilo per mostrarmi quanto il suo ventre fosse esuberante e chiedendomi con voce piagnucolosa di poterle risolvere questo problema. Mario, un marcantonio di muratore che non sono mai stato capace di far smettere di fumare e bere. Anna Maria, giovane amica sempre “delicatina” e silenziosa, portata via in pochi mesi da un cancro alla mammella di un’aggressività tale che ha lasciato tutti stupefatti.
Ogni riga un volto, ogni volto una storia o almeno un pezzo di storia vissuto insieme. L’ultimo nome che vedo prima di tornare nell’archivio dei pazienti “attivi” è quello di Paolina, che in modo quasi prepotente si fissa nella mia mente mentre sto proseguendo in quello che devo ancora fare. Quando mi concentro sulle certificazioni, il suo volto scompare, ma come allento per un attimo la mia concentrazione eccolo che riappare come una vecchia ferita che avevi dimenticato, che non faceva più male, ma che adesso ricomincia a dare qualche segnale, come se stesse per riaprirsi. Mentre sto tornando a casa, al volante della mia auto, quel suo caschetto di capelli biondi su quel viso lievemente segnato dalle cicatrici di un acne cistico adolescenziale ogni tanto fa capolino e riappare. Mentre mi rilasso, dopo la cena, ecco che Paolina riprende il sopravvento e la rivedo come se il tempo si fosse fermato allora, quando rilevò la bottega di parrucchiera a poche decine di metri dal mio ambulatorio.
Erano oramai diversi giorni che le varie “comari” che affollano immancabilmente le sale d’aspetto degli ambulatori dei medici di famiglia avevano preannunciato questo nuovo arrivo nel quartiere. Mi avevano anche bisbigliato che si trattava di una ragazza madre, dettaglio che per quei tempi aveva ancora un significato, infatti, quando poco tempo dopo Paolina venne in ambulatorio a presentarsi come nuova paziente portò con sé anche la figlioletta che aveva il suo stesso cognome. Le presentazioni furono come da rito: anamnesi veloce, richiesta di eventuali esigenze, un buffetto alla bambina, però, già da qualche parte sentivo che non sarebbe stata una gestione semplice. Ben presto, infatti, i sospetti furono fondati: in media una o due volte la settimana entrava trafelata, senza nemmeno provare a bussare, qualche cliente della parrucchiera invocando il mio pronto intervento per Paolina. La scena più o meno era sempre la stessa, con la protagonista sdraiata a terra mentre le soccorritrici di turno le tenevano sollevate le gambe e le sventolavano qualche rivista davanti al viso a mo’ di ventaglio; lei talora con gli occhi chiusi o aperti sbarrati, in iperventilazione, tutta irrigidita. L’esame obiettivo come da copione: segni vitali conservati, pressione arteriosa normale… insomma i classici attacchi di panico.
Ogni volta da parte mia le stesse risposte:” Tranquilla! Non c’è niente! E’ solo tanta ansia perché il cuore va bene, la pressione pure! Cerca di controllarti!”.
In effetti, oramai, avevo perso il conto delle volte che veniva in ambulatorio con le sue gambe tremolanti o di quelle in cui venivo chiamato d’urgenza nel suo negozio. Nonostante le mie rassicurazioni, nonostante cercassi ogni volta le argomentazioni più appropriate per cercare di giustificare i suoi sintomi e i suoi disturbi, non riuscivo minimante ad ottenere qualche risultato: “Dottore! Sento la morte che sta arrivando! E’ come se la mia testa si staccasse dal resto del corpo ed io non riesco più a capire se sono in grado di controllare le mie braccia e le mie gambe……è una sensazione penosa che mi blocca, che mi impedisce di andare avanti. Penso a mia figlia, a come le sarà possibile andare avanti senza di me”. Questo era il mantra che Paolina recitava in modo ossessivo ogni volta che accorrevo in suo aiuto dopo che avevo finito la visita medica oramai sempre più breve e succinta. Ogni tentativo terapeutico di tipo farmacologico durava due o tre giorni per essere poi interrotto a causa di effetti collaterali mai rintracciabili sull’ufficiale “bugiardino”. Ogni volta che l’avevo inviata da qualche specialista d’organo con la speranza di convincerla che non avesse nulla di patologico avevo fallito, per non parlare poi delle richieste di consulenza psichiatrica: nemmeno prese in considerazione. Insomma mi ritrovai alla fine in un profondo cul de sac, vuoi per la mia inesperienza di allora che mi portava, sempre e comunque per prima cosa, ad escludere malattie organiche o vuoi per la sua grande capacità a prendere poi lei “in mano” la gestione di tutto, anche di me.
Un giorno arrivò una telefonata. Era la madre di Paolina, mai conosciuta, che avevo solo sentito nominare molto sporadicamente, che mi pregava di correre a casa perché la Nostra si sentiva veramente male. Arrivai in modo abbastanza non sollecito presso la loro abitazione: una casa in aperta campagna con tanto di galline che razzolavano sul cortiletto. A ricevermi c’era una signora anziana con il tipico fazzolettone annodato sotto il collo come si usava nella migliore tradizione contadina umbra, si presentò come la mamma, scuotendo la testa come in senso di disapprovazione mi accompagnò al capezzale di Paolina e si congedò. Questa era nella sua stanza impregnata dal fumo di sigaretta che aveva sempre accesa e, sdraiata sul letto e accoccolata vicino al suo grembo, c’era la figlioletta che tradiva dal suo viso preoccupazione ed ansia. ” Allora? Siamo alle solite?” esclamai. Lei dopo una pausa di silenzio che non terminava mai, dopo aver invitato la bimbetta a raggiungere la nonna, sottovoce cominciò a parlare:” Sono contento che sia venuto a casa, potrà finalmente così vedere dove vivo e soprattutto con chi vivo. Come avrà capito quella donna che le ha aperto, è mia madre. Mio fratello molto più grande di me vive a Milano da tanto tempo ed è come se non esistesse. Noi siamo una famiglia contadina, mio padre è morto da diversi anni e il terreno che avevamo è stato quasi tutto venduto per tirare avanti e ci è rimasta solo questa casa che avrebbe bisogno di tanti interventi di manutenzione. Io sono andata a fare la parrucchiera appena finite le scuole dell’obbligo come apprendista, poi, dopo aver lavorato alcuni anni come dipendente, ho deciso di mettermi in proprio. Quasi nello stesso periodo sono rimasta incinta e ho deciso di portare avanti la gravidanza. Da allora è successo il pandemonio: il mio ragazzo si è volatilizzato e mia madre che già aveva maldigerito lui, la mia scelta di aprire una bottega mia, ha cominciato a torturarmi psicologicamente sul fatto che non volevo abortire. E’ stata un assillo continuo: stupida, cretina erano gli insulti più tranquilli che mi faceva, per non parlare poi quasi della “morte civile” che mi aveva dato, insomma mentre per quasi tutte le donne la gravidanza è una felice attesa, per me è stata una battaglia ed un logorio continuo. Solo il sentire questa creatura che si muoveva dentro di me mi ha dato la forza di andare avanti e non farla finita. Adesso inoltre si sono aggiunti altri problemi. Ho accumulato diversi debiti con la banca per aprire il negozio vicino al suo ambulatorio e il lavoro non va per niente bene… come faccio a stare tranquilla come lei mi dice? “. Non mi ricordo bene come risposi, senza dubbio com’è mia abitudine quasi innata, rimasi abbastanza in silenzio. Sono convinto, infatti, che difronte a certe situazioni e problemi, dare delle risposte immediate, magari le prime che ti vengono in mente, sarebbero nella migliore delle ipotesi banali. Molto probabilmente avrò chiesto scusa, avrò cercato di dare comunque un senso a quello che faceva, avrò cercato di valorizzare il suo ruolo di madre e di sottolineare come le sue crisi avrebbero potuto influire sulla bambina…non mi ricordo! Quello che ricordo bene invece è che da quella volta i suoi attacchi di panico diminuirono di frequenza per cessare quasi del tutto di lì a poco. La storia di Paolina è proseguita con un suo matrimonio che poi è saltato dopo pochi anni. La bottega da parrucchiera è stata in seguito rilevata da un’altra gestione e con il ricavato ha potuto così estinguere i debiti che aveva accumulato. La figlioletta è cresciuta, è diventata a sua volta una donna ed ha iniziato a lavorare e si è fidanzata. Paolina si è messa fare la collaboratrice domestica e la situazione sembrava trascorrere in maniera semplice ma tranquilla ed accettabile, quando un giorno venni chiamato di nuovo con urgenza alla sua casa. Pensavo ad un ritorno alle origini, per telefono mi dicevano che aveva tanto mal di testa che le sembrava di svenire. Una volta arrivato però, capii subito che c’era dell’altro, segni di deficit neurologici…la ricoverai immediatamente.
Dopo qualche giorno andai a trovarla all’ospedale, i colleghi mi parlarono di metastasi cerebrali partite da un tumore polmonare che sino a quel momento era stato completamente asintomatico, la tosse per lei, fumatrice accanita, non aveva rivestito nessuna importanza. Quando entrai nella sua camera mi accolse sorridendo, innaturalmente tranquilla:” Lo vedi dottore, che alla fine avevo ragione io! Adesso ci credi che sto male?” Oramai mi dava del tu da anni. Anche allora a casa sua probabilmente risposi con il silenzio, mi ricordo poi che parlammo di sua figlia che oramai era autonoma e mi congedai da lei dicendole che ci saremmo rivisti a casa…fu così, ma per redigere il certificato della sua morte.
Questa è una storia, una narrazione che riguarda la vita di una mia paziente, ma senza dubbio anche la mia vita, sia quella di medico sia quella di uomo, se fosse mai possibile segnare un confine fra il mio essere uomo ed essere medico. Io penso però proprio di no. Sono perfettamente in armonia con quello che dice Mauro Ceruti nel suo:” La fine dell’onniscienza” in cui afferma che non può esistere lo scienziato, l’uomo di scienza, il professionista che possa scegliere ed operare in maniera atemporale, decontestualizzata, avulsa cioè da tutte quelle coordinate di spazio e tempo in cui si trova di fatto a lavorare (Ceruti, M., 2014). Come potrei adesso io, dopo questa esperienza, dopo questa co- costruzione di questo percorso e relazione poter essere neutro e neutrale e oggettivo? Il mio scegliere, il mio indagare sarà sempre e comunque condizionato: dall’esperienza, dalle informazioni avute, dal contesto in cui mi trovo. Avrò i miei pregiudizi in senso “Gadameriano” che condizioneranno di fatto l’evoluzione delle scelte e potrei quindi provocare il dispiegamento di una realtà oppure di un’altra realtà. Pochi si rendono conto come quella che dovrebbe essere una scelta oggettiva e sequenziale rispetto ad un dato iniziale: sintomi, subisce spesso dei cambiamenti, degli spostamenti talora coscienti talora inconsapevoli derivanti dalla soggettività del medico e del paziente. Senza invocare la sorte, il destino o il caso alla sliding doors si deve prendere atto che il nostro “metodo” è equiparabile a quello che in fisica sarebbe definito un vettore, ad una forza cioè che ha una direzione e che può senza dubbio determinare poi l’evoluzione di un sintomo verso una quadro clinico o un altro quadro clinico. E’ estremamente importante che questo concetto sia capito e metabolizzato, tante, infatti, sono poi le ricadute in termini di etica e responsabilità professionale. Basti pensare alla scelta di medicalizzare o meno la paura di crescere di un adolescente, la solitudine di un anziano o la “semplice” somatizzazione di un’ansia. Sergio Boria nel suo breve ma prezioso saggio:”Verso una medicina della complessità” scrive :”il medico di famiglia partecipa alla vita dei suoi utenti e all’evoluzione dei loro sistemi sociali d’appartenenza nell’arco di molti anni. Ha inoltre accesso alle dinamiche familiari attuali nel contesto delle quali si realizza l’esistenza dei suoi utenti. E’ infine alle prese quotidianamente con il labirintico intreccio delle relazioni mente-corpo, muovendosi molto spesso al confine tra la dimensione somatica e quella psichica. E’ quindi il medico di famiglia che meglio di qualsiasi altro professionista della cura è nella condizione di cogliere la natura sistemica e storico- processuale dei sistemi viventi” (Boria S., 2013). Ovviamente sono affermazioni che sottoscrivo, ma voglio aggiungere alcune considerazioni di carattere generale sulla cornice epistemologica dentro cui noi medici di famiglia ci muoviamo e sulle specificità e peculiarità della medicina narrativa in medicina di famiglia.
Il metodo basato sull’approccio bio-medico, dando per scontato che esista davvero, è quello che ci viene insegnato all’Università. La malattia è convenzionalmente individuata in un’ottica riduzionista come uno scostamento dalla norma di varianti biologiche misurabili a prescindere dagli aspetti psichici e sociali del paziente, è poi anche di quest’ultimi decenni l’altare della Evidence Based Medicine su cui viene sacrificato tutto quello che non è numericamente oggettivato. Non voglio essere frainteso! Nessun’obiezione sull’utilità del rigore e della numerosità degli studi controllati che permettono di valutare l’utilità di quel farmaco o di quella procedura, ma il medico di famiglia è l’operatore sanitario che sperimenta per primo, sulla propria pelle, l’insufficienza e l’incompletezza di tale approccio. Come spiegare i sintomi senza malattia? Quale bussola ci può orientare nel pianeta che viene definito illness, quando cioè il paziente esprime un quadro di disagio, quando dice che non si sente bene senza presentare però una clinica ed una sintomatologia tale da configurare una disease, una malattia cioè nosograficamente connotata? Senza dubbio per noi medici di famiglia il paradigma che vale è quello che poggia sulla relazione perché come afferma McWhinney:”l’oggetto della nostra conoscenza non è la malattia, ma il paziente” (McWhinney,1993) e cioè l’uomo e, pertanto, ecco che per noi la malattia non è più una categoria, un capitolo della patologia medica o chirurgica, ma diventa un costrutto, un puzzle formato da tanti pezzi assemblati volta per volta attraverso la relazione medico- paziente. La relazione, pertanto, se nella prassi specialistica è quasi irrilevante ai fini dei risultati clinici e rientra nel campo dell’etica e della deontologia, nel momento in cui diviene fattore capace di modificare la malattia considerata come illness, assume un ruolo centrale, un ruolo che partecipa alla dinamica del processo di cura, un ruolo di metodo con cui giochiamo sovente la nostra professionalità. Quali strumenti pertanto occorrono per praticare questo ruolo di mediatori fra la soggettività dei nostri pazienti e la presunta oggettività della scienza medica? Quale mezzo e strategia per penetrare meglio la weltanschauung dei nostri pazienti se non la medicina narrativa? Quante diagnosi sarebbero possibili e quanti accertamenti strumentali sarebbero evitati se ai pazienti fosse sempre data la possibilità di esprimersi, di raccontarsi e di raccontare. Troppe volte ci “allacciamo il camice” e dopo aver fatto parlare il nostro paziente per soli dieci o venti secondi, lo dirottiamo verso quella ipotesi diagnostica che abbiamo formalizzato nella nostra mente corroborandola con una lunga lista di analisi e prestazioni.
Su questo punto credo, però, che sia opportuno fare alcune considerazioni su certi possibili sviluppi delle medicina basata sulla narrazione e sulla sua specificità nella medicina di famiglia.
La medicina narrativa attualmente sta diventando come un fiume in piena che si ingrossa sempre più: tutti ne parlano, tutti ne sono entusiasti e tutti sono convinti in un certo qual modo di conoscerla e praticarla. Questo fatto ha senza dubbio stimolato l’Istituto Superiore di Sanità a costituire un gruppo di esperti per dar vita ad una Conferenza di Consenso denominata :”Linee di indirizzo per l’utilizzo della medicina narrativa in ambito clinico-assistenziale, per le malattie rare e cronico-degenerative” che ha partorito un documento definitivo di consenso che è stato pubblicato nella collana ” I Quaderni di Medicina” de Il Sole 24Ore Sanità (Allegato a n.7, 24 feb.-2mar.2015) con il contributo incondizionato della multinazionale del farmaco Pfizer. Senza dubbio si è sentita l’esigenza di “normare” e “teorizzare” la Medicina Basata sulla Narrazione per evitare che uno spontaneismo incontrollato potesse dar vita ad uno stile salottiero del prendersi cura. Sono stati esplorati i presupposti, la storia, i modelli di approccio per arrivare ad una definizione e indicare anche gli strumenti. Questa esigenza di normare però, questa volontà di proporre una definizione ed una metodologia, se da una parte origina da un sacrosanto principio di voler portare ordine e chiarezza, dall’altra può incorrere nel rischio di tornare sudditi del paradigma scientifico la cui insufficienza si voleva superare: “Tuttavia, è importante evitare di finalizzare la medicina narrativa al solo contesto della cura di un singolo paziente perché non è possibile eludere la richiesta che essa debba essere sottoposta a stringenti requisiti di validità scientifica” (documento cit pag 17), si avverte cioè la tentazione di voler a tutti costi oggettivare e reificare, nel senso di trasformare in oggetto, quello che è un rapporto umano dinamico, di scambio di un qualcosa che molto spesso è impalpabile e non misurabile.
La seconda considerazione riguarda proprio come la Medicina Narrativa si ponga nei confronti della Medicina di Famiglia, nel senso che quasi tutti quelli che hanno lavorato al documento di consenso non conoscono e non vivono la nostra realtà e la nostra consuetudine lavorativa. Qualcuno forse non è nemmeno direttamente coinvolto in una relazione di cura o il suo prendersi in carico di un paziente inizia ad un certo punto della vita del paziente: dopo un ictus, dopo la diagnosi di una malattia diabetica o di una malattia oncologica o degenerativa. Per noi non si dà questa realtà. L’interazione con i nostri pazienti comincia spesso quando ancora sono sani, quando ancora non sono dei malati o addirittura con i genitori del paziente, prima che venga al mondo. Noi partiamo da un osservatorio privilegiato in quanto del Nostro conosciamo in partenza la sua ecologia, il suo essere-nel-mondo con le sue prerogative…il cosiddetto approccio bio- psico-sociale si dà o si dovrebbe dare in modo quasi automatico. Che voglio dire con questo? No di certo che per noi la Medicina Narrativa sia innata come dote naturale, ma che mentre per il riabilitatore, il diabetologo o l’oncologo la narrazione inizia con i capitoli posti a metà o prossimi alla fine del libro del nostro paziente, per noi la storia comincia con il primo capitolo se non addirittura con la prefazione perché come dice ancora Sergio Boria nei nostri confronti:” ho spesso verificato in loro una sorta di “conoscenza sistemica incarnata” (embodied)……..e con questa conoscenza possiamo spesso percorrere scorciatoie impensabili per altri operatori e arrivare a risultati incredibili. Il vero problema è far acquisire a tutti i colleghi questa consapevolezza che richiama poi il vecchio concetto di M. Balint su come il medico stesso sia di fatto una medicina con indicazioni, controindicazioni ed effetti collaterali (Balint. M, 1982).
Considerazioni conclusive
La storia di Paolina costituisce per un medico di famiglia quasi una cronaca di normale quotidianità.
La paziente offre dei sintomi, un quadro clinico di presentazione somatica di disturbi psichici che talora potrebbero essere inquadrati come attacchi di panico, talora come disturbo d’ansia generalizzato, talora come disturbo di conversione. Sono convinto che se si alternassero dieci psichiatri avremmo dieci diagnosi psichiatriche diverse. Per noi, però, medici di famiglia o medici di medicina generale nell’accezione preferita da molti, questo non è un problema, siamo abituati a convivere con l’incertezza e con l’indefinito. Giustamente qualcuno (G. Parise, 2003) ha definito la Medicina Generale come Scienza del Limite:” Lavorare come medico di medicina generale significa seguire nel tempo una popolazione costituita da singoli pazienti ed intessere una relazione unica e irripetibile con ognuno di essi. Significa avere la possibilità di riflettere sui limiti dell’attività medica, conoscere quanto non si può fare: il sapere medico può essere solo contingente, non può penetrare il tempo per quel singolo paziente. Anche se in termini generali le formulazioni diagnostiche e prognostiche sono all’insegna del determinismo, nei termini particolari di quel paziente non esiste prevedibilità: il medico segue il paziente di tratto in tratto. Ogni consultazione è nodo iniziale di una serie di possibilità che si dipanano ad albero e che rispondono alle leggi della contingenza e non a leggi generali. Come la legge di gravità non dice perché la mela cade proprio in testa a Newton in quel preciso giorno e non può prevedere quando cadrà la prossima mela in testa a qualcuno, la scienza medica non dice molto su come si svolgerà la malattia in quel particolare paziente“.
Paolina ha continuato per mesi a richiedere il mio intervento e per mesi ho cercato di rispondere da medico, non avevo capito, o meglio avevo capito benissimo come del resto sapeva benissimo anche lei, che “il dente che faceva male” non era nella sua bocca, ma andavamo avanti tutti e due con una finzione di fatto. Andare nella sua casa, conoscere anche se in modo succinto il suo ambiente, la sua “ecologia” ha provocato quel senso di “comprensione” reciproca. E’ stato forse sufficiente questo: sentirsi capita, sentirsi accettata…. ho raccontato la mia storia, mi hai capita, hai accettato e vissuto con me la mia sofferenza. Mi basta questo, stai convivendo con me il mio dolore e la mia precarietà.
Questa è senza dubbio prendersi cura e farsi carico.
Infirmorum cura ante omnia et super omnia adhibenda est
San Benedetto da Norcia
Bibliografia
Balint M., 1982. Medico paziente e malattia, Feltrinelli, Milano.
Boria S., 2013. Verso una Medicina della Complessità. Il ruolo del medico di famiglia a orientamento sistemico, Guaraldi, Rimini.
Ceruti M., 2014. La fine dell’onniscienza, Studium, Roma.
McWhinney, 1993 (Why we need a new clinical method, Scand J Prim Health Care 1993; 11: 3-7)
Linee di indirizzo per l’utilizzo della medicina narrativa in ambito clinico-assistenziale, per le malattie rare e cronico-degenerative ” I Quaderni di Medicina” de Il Sole 24Ore Sanità (Allegato a n.7, 24 feb.-2 mar.2015).
Parise.G., 2003. Un nuovo metodo clinico, in Medicina Generale; 24-25, UTET Torino.
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Tiziano Scarponi

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