Rivisitazione in chiave fenomenologica e complessa della medicina.
Testo del mio intervento per la vacanza studio AIEMS 2016 che non si è tenuta causa terremoto
UN NUOVO CONCETTO DI SALUTE Per una cura del corpo e della mente
Dall’articolo III del codice di deontologia medica della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi ed Odontoiatri dello Stato Italiano”…….
Doveri del medico sono la tutela della vita, della salute psico-fisica, il trattamento del dolore e il sollievo della sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona, senza discriminazione alcuna, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera.
Al fine di tutelare la salute individuale e collettiva,il medico esercita attività basate sulle competenze, specifiche ed esclusive, previste negli obiettivi formativi degli Ordinamenti didattici dei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia e Odontoiatria e Protesi dentaria…”
Ho voluto riportare questa citazione del codice deontologico della mia professione per fare alcune riflessioni in generale su come debba operare un medico e in particolare se la formazione universitaria che ho ricevuto sia stata veramente in grado di garantire questi obiettivi, ben consapevole che la mia esperienza non può essere generalizzata per tutti, soprattutto per le nuove generazioni. Dall’anno in cui mi sono laureato, 1977, si sono succedute diverse riforme dei piani di studi del corso di laurea e probabilmente la situazione è cambiata, anche se è mia sensazione che il cambiamento sia molto marginale e non so se proprio in meglio.
Si presume che uno studente in Medicina venga preparato e formato nella conoscenza del corpo, anzi dell’organismo e l’uso di questo sostantivo è già di per sé tutto un programma.
Un testo molto ambito quando frequentavo il primo biennio della facoltà di medicina e Chirurgia era senza dubbio l’Atlante di Anatomia Netter. Per i profani si tratta di una serie di volumi che contengono delle tavole anatomiche disegnate in maniera tale da essere considerate eccellenti da un punto di vista didattico. Mentre studiavo sui testi o sulle dispense di Anatomia Umana consigliate dall’ Università, consultare queste tavole costituiva un aiuto fondamentale per poter imparare la morfologia dei vari organi ed apparati. Dirò di più! Sfogliando continuamente quelle immagini, con il passare del tempo nella tua mente si crea la convinzione che quei disegni rappresentino “il corpo” dell’essere umano, con quei colori e schematismi, con quelle forme e posizioni. Si formalizza, insomma, il concetto che quello sia il corpo e, quel corpo diventa quasi, di fatto, il tuo modello di riferimento per tutti gli anni a venire.
Nel secondo biennio di Medicina, attraverso la fisiologia e la fisiopatologia mi hanno insegnato come funziona il nostro corpo e come si ammala da un punto di vista generale . Nel terzo e ultimo biennio, con le cosiddette cliniche, invece, ho imparato come si ammalano i vari organi e apparati in maniera più specifica e come dovrebbero essere curati. Tutto perfetto? Senza dubbio ci sono diverse criticità. Già quando al V anno per preparare l’esame di anatomia patologica assisti alle autopsie e vedi com’è la reale anatomia di un corpo entri in crisi…tutti i colori e tutti gli schemi delle tavole anatomiche vanno messi da parte e già il distinguere un’arteria da una vena non è poi così automatico per un occhio non allenato. Quando poi cominci a frequentare i reparti, molte malattie e quadri clinici che ti hanno insegnato o non li ritrovi, o li ritrovi molto spesso modificati in maniera molto sensibile, o ne trovi altri che invece non riesci a collocare.
Quando poi cominci a lavorare nel territorio, come ho fatto io, come medico di famiglia, la dissonanza cognitiva, chiamiamola anche dissonanza formativa, diventa una tonalità quasi assordante.
Che cosa ci hanno insegnato, infatti, sul corpo? Come ci hanno fatto studiare le malattie incasellandole in maniera tale da farcele apprendere e ricordare?
Maurizio M. ha 32 anni viene in ambulatorio dicendo che da qualche tempo non digerisce bene e che il mattino si sveglia con la bocca amara. Dopo pranzo si sente la pancia gonfia e con qualche doloretto che si sposta continuamente interessando tutti i quadranti dell’addome. Non calo di appetito, non dimagramento. Esame obiettivo negativo. Richiedo analisi del sangue di routine con prove di funzionalità epatica che vengono negativi. Rassicuro e non prescrivo farmaci consigliando moderazione generica nell’alimentazione. Dopo un mese torna riferendo di stare sempre peggio e non trovando nulla di nuovo, più per farlo contento, lo invio dal gastroenterologo che me lo rimanda con una lunga serie di prescrizioni: accertamenti ematochimici che spaziano dalla celiachia alla funzionalità pancreatica, markers tumorali, ricerca dell’Helicobacter Pylori, ecografia di tutta l’addome, esofagogastroduodenoscopia. A malincuore faccio le richieste……dopo un mese tornano le risposte che, come mi aspettavo, sono tutte negative. A questo punto cerco di rassicurare nuovamente , ma la risposta del paziente è:
” Fino a quando non troviamo un nome a questa malattia, proseguiamo con gli accertamenti!”.
Valentina P. ha 74 anni, vedova senza figli con il marito deceduto qualche anno indietro per un cancro al colon. E’ affetta da diabete mellito con scarsissimo compenso metabolico, ipertensione arteriosa, lieve emiparesi per postumi di un’ischemia cerebrale. Grande obesa, entra in ambulatorio con fatica, respirando affannosamente e in visibile stato di agitazione. Le chiedo che cosa le stia succedendo e lei mi risponde che questa notte ha avuto un discreto mal di pancia con un po’ di diarrea e forse ha visto anche qualche “traccina” di sangue.
La visito, la tranquillizzo dicendo che avrà avuto un episodio colitico di scarsa importanza e anche il vedere un po’ di sangue in tali occasioni è cosa abbastanza normale, ma che sarebbe opportuno, già che era venuta, fare un po’ di analisi per vedere anche come andava il diabete….” No, dottore, la ringrazio, al mio diabete ci sono abituata. La mia paura era se avevo un tumore all’intestino come mio marito! Io sono sola adesso, e chi mi avrebbe assistito? Ma lei mi dice che non ho niente e a me basta così!” Mi saluta e senza darmi la possibilità di replica va via.
Queste appena descritte sono situazioni di ordinaria e quotidiana osservazione negli studi dei medici di famiglia, ma che cosa ci è stato insegnato per poterle gestire? Quali strumenti possiamo adoperare o, di fatto, adoperiamo ogni volta ci troviamo a dover condividere questi accadimenti con i nostri pazienti?
Ognuno di noi, di solito si comporta a suo modo: chi nel primo caso proverà ad attivare un’ulteriore consulenza specialistica, magari anche psicologica, mentre nel secondo caso chi lascerebbe perdere o chi reagirebbe in maniera più decisionista. Quali le alternative? E’ possibile ipotizzare qualcosa di diverso?
Qualche linea guida che si possa apprendere da studente? Io sono convinto che non sia sufficiente aggiungere nel piano degli studi universitario un corso di psicologia o di comunicazione o di relazione medico- paziente. Senza dubbio occorrerà anche questo, ma il vero problema andrebbe per quanto più possibile affrontato anche in termini d’impostazione e di metodo: una rivisitazione epistemologica dei principi su cui si fonda la medicina e la formazione del medico. Sappiamo tutti come questa si fondi su una visione puramente biomedica del corpo che origina dalla filosofia meccanicista di Cartesio. Il corpo viene pertanto analizzato secondo un’ottica categorizzante, che lo scompone in apparati, sistemi, organi, cellule e molecole, relegato nella res extensa e soprattutto separato dalla res cogitans: l’anima, la coscienza, il pensiero che determina l’esistenza. Anche il malato recepisce, spesso senza rendersene conto, questa concezione in quanto il più delle volte cerca di definire o vuole che sia definito il proprio dolore o malessere in qualcosa di preciso, localizzabile, oggettivabile per poterlo vincere ed eliminare. Questo presupposto, però, se resta forse valido per i problemi acuti, non è assolutamente sufficiente per affrontare la patologia cronica che sta diventando una vera e propria epidemia e sta mettendo a dura prova la sostenibilità dei Servizi Sanitari del mondo occidentale. Dovremo imparare, a mio giudizio, a rivedere il concetto di corpo e molto dovremo imparare dal pensiero fenomenologico-esistenziale di Husserl, Heidegger e soprattutto di Merleau Ponty. Non è mia intenzione, non ne avrei nemmeno la capacità, ripercorrere tutta la riflessione filosofica che deriva da questi nomi, ma mi preme evidenziare come un cambio di paradigma sia diventato oramai un’esigenza inderogabile per la formazione e l’attività del medico, soprattutto per il medico di famiglia.
Affrontare lo studio del corpo esclusivamente come Korper, vale a dire come corpo anatomico, biologico, corpo oggetto, se da un lato facilita enormemente la categorizzazione e l’apprendimento per organi ed apparati e funzioni biologiche, da un altro lato lo svuota di tanti altri contenuti come le emozioni, l’intelligenza, la propria storia, i propri vissuti che sono appannaggio, invece, del corpo come Leib, corpo vissuto appunto.
E’ possibile per un medico poter curare Maurizio e Valentina senza poter entrare nella loro dimensione di “corpo vissuto”? E’ possibile fare a meno di una comprensione del loro corpo che vada oltre i loro organi? Penso proprio di no! Senza dubbio “hanno” un corpo che va studiato in un’ottica, ma “sono ” anche un corpo che va approcciato in un’ottica più ampia, più complessa, più sistemica. Tutta la nostra conoscenza, tutta la nostra esperienza passa attraverso la nostra corporeità, è attraverso tutto il nostro corpo che origina di fatto il nostro mondo e dà un senso a tutto quello che accade; il nostro corpo quindi come ” carne del mondo” perché è la nostra carne che sente e si emoziona e, nello stesso tempo, quella che ci permette di capire ciò che abbiamo sentito e ciò che ci ha emozionato come espressione del nostro essere persona fisica e pensante contemporaneamente nella sua totalità e unicità di fronte al mondo. A questo punto della riflessione sorge spontanea la domanda su che cosa succeda quando ci relazioniamo con il “corpo vissuto” dell’altro tenendo conto che anche noi medici, noi osservatori, abbiamo un nostro corpo, una nostra corporeità e un nostra essere nel mondo che viene a sua volta plasmato e definito dall’esperienza di vita e del mondo stesso? Da qui scaturiscono tutte le conseguenze e le inferenze che derivano dal nostro agire medico, non solo clinico, ma anche dal tipo di rapporto e di esperienza che si origina dal nostro scegliere e parlare, dal nostro embodiment con l’altro.
Altra domanda che viene spontanea è come sia possibile trasferire tutta questa impalcatura teorica nella pratica della nostra attività lavorativa?
Primo passaggio, convincersi che non ci relazioniamo più solamente con il corpo del paziente come corpo biologico alla ricerca di segni e sintomi di una malattia convenzionalmente definita, ma come un corpo in carne e ossa che prova emozioni, interpretazioni del proprio malessere, esperienza di sé e della sua malattia. Un corpo soggetto che deve essere aiutato ad esprimere la propria intenzionalità, la propria potenzialità e progettualità attraverso la narrazione di sé, attraverso un intervento educativo centrato su quel paziente e su quel problema, su quell’uomo e sul suo sistema ambiente, sistema sociale e relazionale. Da tutto questo deriva una completa rivisitazione del concetto di salute che non può più essere quello individuato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nell’ormai remoto 1948:” …. non solo l’assenza di malattie ed infermità, ma uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”. Alla luce di quanto esposto, che presuppone una visione sistemica della vita, non potremo trovare mai una definizione precisa della salute, valida per tutti in quanto “la salute è un’esperienza ampiamente soggettiva, le cui qualità possono essere conosciute intuitivamente, ma non possono essere mai descritte o quantificate in modo esaustivo. La salute è uno stato di benessere che si sviluppa quando l’organismo funziona in un certo modo….Il concetto di salute e, pertanto, i relativi concetti di malattia, disturbo e patologia non si riferiscono ad entità ben definite , ma sono parte integrante dei modelli limitati ed approssimativi che rispecchiano il complesso e mutevole fenomeno della vita”( F.Capra, P.L.Luisi 214). Una definizione di salute che si avvicina ai concetti espressi è quella ipotizzata nella Conferenza Internazionale ( Is health a state or an ability? Towards a dinamic concept of health) tenutasi a L’Aia nel dicembre 2009 di cui ho scritto in passato (T.Scarponi 2012). In quell’occasione venne indicata una concezione di salute “… dinamica, basata sulla resilienza e sulla capacità di difendere, mantenere o recuperare il proprio equilibrio e senso di benessere. Salute quindi come capacità di adattarsi e autogestirsi. Particolare importanza, quindi, al processo di resilienza che in psicologia viene individuata nella capacità degli uomini di affrontare le avversità della vita, di superarle venendone fuori rafforzati. Si tratta pertanto di un processo dinamico che parte da un nuovo modo di valutare il proprio concetto di sé, degli altri e del mondo che ti circonda. E’ un processo individuale, personale che scaturisce dalle proprie reazioni difronte agli eventi traumatici della vita e pertanto un percorso che è valido per una persona potrebbe non esserlo per un’altra in quanto legato al proprio vissuto, alle proprie concezioni e alla propria cultura di riferimento…” Ecco pertanto rafforzarsi il concetto di salute come un processo in divenire di un essere che continuamente si deve adeguare ai continui cambiamenti della vita e pertanto
è davvero impensabile ad un netto confine fra salute e malattia. “La vita non è solo una dimensione biologica, ma comprende anche una dimensione cognitiva, sociale ed ecologica, cui corrispondono altrettante dimensioni della salute”
A questo punto possiamo parlare di una concezione sistemica che prevede in particolare tre livelli di salute tra loro interconnessi: individuale, sociale ed ecologico continuamente interagenti. Salute pertanto come bilanciamento dinamico, salute come:” Un’esperienza di benessere risultante da un equilibrio dinamico che implica gli aspetti fisici e psicologici dell’organismo, oltre che le sue interazioni col suo ambiente naturale e sociale” ( Capra 1982) Appare a questo punto automatico che ogni malattia comporta degli aspetti mentali, cognitivi in un’ottica sistemica, quindi ammalarsi e guarire devono a loro volta essere considerati dei processi cognitivi.
Come posso concludere queste considerazioni? Senza dubbio con l’invito e l’impegno con chi ne ha potere e possibilità di cominciare a far passare certi concetti e riflessioni nella formazione dei futuri medici, meglio, in tutti coloro che in qualche modo hanno un qualche ruolo nel prendersi cura. E’ poi importante capire che questo è solo l’inizio di un processo che dovrà essere sviluppato e reso percorribile. Ma tornando al nostro Maurizio e alla nostra Valentina? Come medico di famiglia devo dare comunque delle risposte subito. Risposte certe? Credo di no! Ma il medico di famiglia è abituato all’incertezza e all’indefinito. Per Maurizio ho aspettato che si sentisse stanco nei suoi “pellegrinaggi verso i santuari degli specialisti” e ho cominciato a chiedere come gli stesse andando la vita in generale, lo sto facendo narrare e un po’ alla volta si sta aprendo. Vedremo. Per Valentina al momento ho ritenuto opportuno di non “infierire” sulla cognizione che ha di se stessa e sul suo essere abituata al ” suo diabete”…..molti colleghi storceranno il naso, ma ho fatto così! Più vado avanti con gli anni e con la professione e più maturo esperienze e ,in teoria, dovrei acquisire sempre più certezze e sicurezza, invece forse si sta verificando il fenomeno contrario, come ho scritto nell’ultima recensione che ho fatto per il libro: di Silvano Biondani, Paolo Malavasi e Sebastiano Castellano “I medici si raccontano. Voci dal confine del sapere”, il sottotitolo voci dai confini del sapere è quello che definisce meglio la situazione della medicina di famiglia “…sono le persone con problemi di salute irrisolti quelle che ci coinvolgono maggiormente. Ci chiamano ad essere interpreti di malanni complessi, stagnanti o aggressivi, in cui molto spesso non ci sono risposte… Molto spesso le risposte mediche, diagnostiche e terapeutiche, sono prerogative degli specialisti… Quando le prognosi sono oscure tocca a noi, medici di famiglia, guidare i malati, insieme a chi è loro vicino, nel difficile percorso di adattamento ad una vita peggiore”.