Non è semplice da pensionato, anche se solo da poco tempo, rinverdire gli stati d’animo e le emozioni provate durante le visite quotidiane ai propri pazienti. Fresco di laurea inizi il percorso e da medico di famiglia, qual ero, sei aperto a tutto: ansie, angosce, dolori, preoccupazioni di chiunque ti si presenti davanti. Non hai una struttura ospedaliera che puoi usare come scudo o come luogo di mimetismo, ma sei solo tu con la tua persona intera che devi gestire la scena dell’altrui vita e la tua. Trascorri molte ore del giorno con la testa e la mente rapita dalle immagini di Antonio agonizzante, di Lucia che piange quando le comunichi che la biopsia ha evidenziato un carcinoma della mammella, degli occhi stralunati dei genitori del piccolo Roberto alla notizia che è affetto da diabete e dovrà fare insulina per tutta la vita. Con il passare del tempo e con l’esperienza capisci che se vuoi andare avanti devi studiare qualche strategia per non essere sopraffatto dall’angoscia contagiante da parte dei pazienti o dei loro parenti. Nessuno ti ha mai insegnato a relazionarti con la gente né tanto meno a gestire le proprie emozioni, anzi, queste ultime ti dicono che devi abolirle per poter essere più “oggettivo” possibile. Come potrebbe un chirurgo aprire la testa o una pancia sapendo che sta incidendo un essere umano? Anche per questo hanno inventato i teli chirurgici che manifestano solo la parte da tagliare e da ferire. Per questo nessun medico dovrebbe curare un proprio familiare su cui l’errore diagnostico potrebbe essere molto probabile causato da un comportamento di presa in cura o troppo accondiscendete o troppo pignolo a seconda del proprio grado di ansia. Ecco che allora, strada facendo, in modo del tutto artigianale fra una musata e l’altra impari come poter evitare di soccombere all’angoscia, al senso di impotenza che qualsiasi medico ha provato perché è insito nella nostra professione il dover perdere sempre nella guerra contro la morte. Segui un po’ l’istinto, segui un po’quello che dicono i colleghi anziani duranti i “convivi” scientifici e alla fine impari ad esserci con il corpo, ma non con l’anima, nelle situazioni angoscianti che l’attività quotidiana ti rappresenta.
E’ uno strano esserci! Qualcuno l’ha definita una postura anestetica, forse sarebbe più corretto dire anestetizzata: sei lì! Ma non ci sei, anzi ci sei e registri tutto: dati clinici, eventuali strategie diagnostiche e terapeutiche, occhi pieni di lacrime, pianti e sorrisi, ma è come se le tue emozioni fossero blindate, come se una corazza sia diventata il tuo abbigliamento. Non sempre però questa tattica riesce. Una mattina, ricordo come se fosse ieri, mi arriva una telefonata di una mia paziente che mi dice di avere inserito fra i miei assistiti sua madre Tina. Questa sino ad ora aveva abitato in un comune vicino, ma non essendo oramai più in grado di vivere da sola l’aveva fatta trasferire presso di lei. Mi dice che aveva avuto grande difficoltà nel far accettare questo cambiamento e mi pregava di andare a domicilio per poterla conoscere e valutare il suo stato di salute generale. Arrivo e la figlia, che conosco superficialmente in quanto non aveva avuto mai problemi medici particolari, mi dice che la mamma era una donna di 87 anni che aveva fatto la maestra elementare ed era stata di fatto una figura di riferimento per quella comunità di piccolo paese:” Sa come era una volta! Il curato, lo speziale, il medico e gli insegnanti… ma oramai la memoria non l’assiste più e abbiamo dovuto fare questa scelta dolorosa. Da quando è qui, poi, è molto peggiorata e non riconosce più nemmeno noi e dice persino di essere stata sequestrata, anche se abbiamo cercato di ricreare un po’ il suo ambiente”. Chiedo di entrare da solo nella sua stanza, per non essere condizionato e mi trovo davanti Tina: fisicamente dimostra meno anni, aspetto ben curato, ha sulle spalle la classica mantellina traforata di lana fatta probabilmente a mano da lei. Mi guarda dalla testa ai piedi come se dovesse giudicarmi distogliendo lo sguardo da un volume dell’enciclopedia “ Conoscere” che tiene aperto su una scrivania messa a fianco del letto. Quello che mi colpisce sono i suoi occhi che tradiscono ansia e preoccupazione. Dopo essermi presentato come il suo nuovo medico e averle chiesto come si sente, inizia a piangere e a dirmi che è stata rapita dalla sua casa e portata in questa stanza come prigioniera: “ Quello che mi preoccupa di più è il fatto che i miei alunni stanno aspettando la lezione che ho già preparato aiutandomi anche con l’enciclopedia Conoscere che per fortuna mi hanno lasciato, come faranno?” Mi accorgo che sto quasi per piangere e capisco poi il perché. Mia madre era stata maestra elementare, consultava spesso Conoscere e negli ultimi anni aveva perso la sua storia, come Tina. Che fai allora? Ti guardi allo specchio e non ti riconosci. Che fine ha fatto quel ragazzo generoso che a suo tempo giurò cura e sollievo al prossimo? Dove è andato l’amore e l’emozione per l’altro da te? Ecco che raccogli allora un impulso, una voglia di ripercorrere la strada con quei principi che avevano animato l’inizio del tuo percorso e ricominci a guardarti intorno. Scopri che non sei il solo nell’insoddisfazione e che altri come te stanno cercando.
Counseling, medicina narrativa, medical humanities, autobiografia, cosa sono? Ti dicono che sono tecniche e approcci che ti possono aiutare. Ti dicono che non devi assolutamente smettere di fare il medico per fare lo psicologo o l’assistente sociale, ma devi imparare a comprendere i vissuti di chi ti sta di fronte, a gestire le proprie emozioni, in altre parole ad essere empatico nell’accezione contemporanea. Questa non significa mettersi nei panni dell’altro, che ti impedirebbe una lucida capacità di giudizio e ti sommergerebbe d’angoscia, ma significa ascoltare, evitare giudizi morali, far capire che ci sei e ci sarai sempre insieme a lui per risolvere o a convivere con qualsiasi suo problema di salute. Non è vero che la cosiddetta “umanità” o ce l’hai innata o non ce l’hai! E poi che significa essere umani? Per un medico significa non osservare più un semplice organismo su cui misurare eventuali guasti, ma osservare un uomo nella sua interezza e complessità e nelle sue relazioni con il proprio ambiente familiare e sociale e con te. Insomma, sempre come ha detto qualcuno, passare da una postura anestetica ad una postura estetica.
