Come viene vissuta la medicina di famiglia dai medici giovani?
Editoriale pubblicato sul Bollettino dell’Ordine dei Medici della Provincia di Perugia N.3/2019
Questo editoriale è stato scritto sotto il sole rovente dell’estate 2019 dopo aver rivisto il film di Ingmar Bergman :” Sussurri e grida” e dopo aver letto l’articolo :“ Miseria e nobiltà della medicina generale” scritto dal collega Francesco Benincasa e pubblicato il 5 agosto u.s. nella rivista Accademia Italiana delle Cure Primarie, cui rimando la visione originale completa
Tale articolo, a mio giudizio, rappresenta un’ottima riflessione e spero che venga letto soprattutto dai medici generali giovani, perché definisce una vera cornice ontologica della medicina di famiglia oggi.
E’ un momento di cambio generazionale. Fra qui e quattro o cinque anni quasi il 70% dei Medici Generali attuali sarà andato in quiescenza e sarà sostituito da colleghi giovani e freschi, ma tale cambio sarà del tutto indolore? L’eredità che stiamo per lasciare sarà recepita o nella normale dialettica di contestazione fra vecchi e giovani potrebbe essere stravolta e riorientata in modo tale che la stessa dizione “ medicina di famiglia” non potrà essere più usata come per molti già lo è….famiglia concetto superato e bollito.
Alcuni segnali mi preoccupano. In un comune dell’Umbria al pensionamento di due MG è subentrata una collega che dopo circa un mese ha rassegnato le dimissioni per l’eccessivo carico di lavoro e non c’era subito nessun medico che fosse disposto a trasferirsi lì come primo ambulatorio. In tutta Italia per i piccoli comuni montani non si reperiscono medici. Trovare un sostituto per le ferie o la malattia spesso è un problema. Gli informatori del farmaco in modo quasi unanime mi confessano che con il nostro pensionamento andrà in pensione anche la Medicina Generale, almeno per come la conosciamo ora. Sono molto frequenti, nel gruppo FaceBook Medici Generali dell’Umbria che amministro, i commenti di colleghi giovani che si lamentano e che desidererebbero fare i Medici Generali dipendenti e non più in convenzione.
Come interpretare tali segnali? Una collega, mia quasi coetanea, alcuni giorni orsono mi ha detto:” I nuovi medici arrivano con lo zaino. Sono presi dal computer, dalla segretaria, chiedono se c’è lo spirometro e l’elettrocardiografo…..noi non eravamo così!”.
E’ ovvio e sacrosanto che siano diversi da noi che siamo partiti solo con lo sfigmo e lo stetoscopio,
che non abbiamo avuto il Corso di Formazione Specifica in Medicina Generale, che ci siamo dovuti disegnare il nostro ruolo e la nostra specificità con un percorso a ritroso basato sull’esperienza e sulle “ battute di muso”, credo però che sia opportuno fissare alcuni concetti derivanti dalla lettura dell’articolo sopracitato. Può servire da testamento morale.
“La pratica clinica rischia di rimanere subordinata alle ragioni della cultura aziendalistica.
Ci si trova schiacciati tra l’esigenza di ridurre le spese e incrementare la burocrazia, i bisogni della gente, la concorrenza della medicina commerciale-estetica, difronte alle quali si resta come una Cenerentola senza scarpetta, con un ruolo sociale eroso dalle numerose sottoculture del senso comune. Decritto in questo modo il generalista sembra un naufrago su di un’isola deserta; sotto molti aspetti l’immagine non è lontana dalla realtà. Il senso di solitudine e di abbandono che a volte accompagna quest’attività può essere vinto attraverso lo studio, la ricerca e un’alleanza terapeutica onesta e aperta con il paziente”.
E’ proprio vero! Oramai viviamo fra l’incudine e il martello: i pazienti sempre più pretenziosi abbagliati dalle luci della ribalta di una medicina sempre più spettacolo, sempre pronta a spacciare scorciatoie chimiche che dovrebbero risolvere qualsiasi problema: dalla timidezza o dalla voglia di fare l’amore, dal far dimagrire o dall’essere intelligenti e brillanti. Un Servizio Sanitario sempre più sotto finanziato, che contrabbanda il risparmio per appropriatezza ed una Medicina sempre più impostata su percorsi diagnostici terapeutici ed assistenziali che poco spazio danno alla concertazione e alla relazione medico paziente.
Quando alla fine degli anni ’70 iniziai il mio lavoro, si respirava un’aria diversa. Tutti avevano chiaro quali fossero i limiti e le possibilità della medicina e spesso gli obiettivi, le cure e i rimedi per le malattie venivano fissati di volta in volta dalla relazione medico-paziente dentro la cornice della propria storia, del proprio contesto, di quelle che erano le aspettative del malato e della sua famiglia e non esisteva la rincorsa del risultato ad ogni costo. “Ci sono giorni in cui sembra di sbagliare qualunque decisione si prenda e in cui ci si sente incapaci e ignoranti. La sicurezza in Medicina Generale è sempre illusoria e momentanea; non è facile imparare a convivere professionalmente con la dimensione dell’incertezza. Nel quotidiano si deve contenere l’ansia connessa al dubbio; un’ansia che proviene dalla responsabilità del ruolo, da deleghe a volte poco chiare, dai confini sociali, dai vincoli e dai rischi legati alla presa di decisione”. Altra grande verità! Il dover imparare a gestire da soli le proprie incertezze! A differenza dell’ospedale dove sei quasi sempre comunque con qualcuno con cui condividere il peso delle proprie decisioni: un collega parigrado o più anziano ed esperto o un infermiere. Io dico sempre che quando sali le scale delle case dei tuoi pazienti e ti si apre la porta della camera con il paziente sdraiato sopra il letto sei solo tu, con la tua borsa, le tue mani e la tua testa e in pochi minuti ti si impongono delle scelte da cui può derivare la vita o la morte di un altro essere umano. L’era dell’informazione alla portata di tutti, informazione rapida quasi ossessiva. Informazione spesso recepita in modo acritico che crea nell’ignorante presunzione, aspettative di risoluzioni veloci di qualsiasi problema. Presunzione, aspettativa, aggressività se l’aspettativa non viene soddisfatta! Come poter rispondere a questi aspetti?” Per mantenere salda l’alleanza e la collaborazione con il paziente si devono sfruttare consapevolmente le capacità terapeutiche dell’atto medico, della prescrizione, del gesto, del rito. E’ necessario trovare un giusto equilibrio tra parità, paternalismo, collaborazione, condivisione e professionalità. L’attenzione e l’ascolto devono essere massimi e autentici dal primo momento……Tuttavia, ascolto e clinica, tipici strumenti della medicina generale, sono in crisi. Ci sono situazioni in cui a tutti passa per la mente che la visita è diventata un inutile e faticoso orpello . La tendenza a non visitare va di pari passo con la tendenza ad ammutolire il paziente. Come se il messaggio (a volte esplicito) fosse: “Taci e lasciami lavorare. Posso fare a meno dei tuoi sintomi e della tua voce. La tua opinione è irrilevante, le tue impressioni superate dai fatti fornitimi dalla tecnologia” .La tentazione di restare seduti e prescrivere esami è forte, così come è forte la voglia di valutare la situazione leggendo i referti o guardando le meraviglie della diagnostica per immagini sullo schermo del computer invece di aver visitato la persona. Alzarsi dalla sedia e invitare l’assistito a stendersi sul lettino viene quasi considerata una superflua attività, superata dalla potenza degli strumenti. Eppure, la semeiotica resta fondamento della medicina. Anche quando si ha la netta impressione che la tecnologia potrebbe fare di più e che le manovre semeiologiche o i segni clinici rappresentano una perdita di tempo, è necessario esaminare il paziente.”
L’esplosione dell’informatica, della tecnologia tende molto spesso a rinunciare a visitare e a toccare il paziente. Grande errore! Dovremmo conoscere tutti l’importanza della visita e della semeiologia fisica che trascende la semplice funzione diagnostica, ma che assume anche un significato rituale, quasi ancestrale rimandando ad una “valenza sciamanica” che racchiude in sé una funzione di com-partecipazione, di com-passione, del prendersi cura comunque, anche se non si può guarire.
L’ascolto silenzioso che deve accompagnare la storia e la narrazione che ci fa il paziente già da solo è terapeutico, il poter conoscere il suo mondo, quello che sa del suo problema o della sua malattia costituisce una risorsa irrinunciabile e è bene che chi comincia questo lavoro, si metta bene in testa che percorrerà tante strade quante saranno gli assistiti che avrà in cura.
Saranno strade talora in salita, altre volte in discesa e tortuose. Con poche certezze e il senso di precarietà che costituirà il live motive delle nostre giornate. Certo! Diventare dipendenti potrebbe per certi aspetti togliere il senso della precarietà della nostra vita: avere diritto a ferie pagate, a poter star male con “tranquillità”, a partire da subito con una retribuzione dignitosa senza dover aspettare di vedere crescere giorno dopo giorno un numero di “mutuati” che ti permetta di sopravvivere e tanti altri vantaggi accessori che il medico dipendente ha e neanche immagina….ma non saremmo più il medico di Mario Rossi o di Patrizia Bianchi. Saremmo i medici di quel distretto o di quella struttura con una visione professionale completamente diversa.
Sta a noi scegliere di lavorare come Karin e Maria o come Anna al capezzale di Agnese…ma che dico? Al capezzale della Medicina Generale.