IL BURNOUT DEL MEDICO: DALL’AIUTARE ALL’ESSERE AIUTATO

Il problema del burnout del medico.
Pubblicato sul Bollettino dell’Ordine dei Medici della Provincia di Perugia n.02/2013
IL BURNOUT DEL MEDICO: DALL’AIUTARE ALL’ESSERE AIUTATO
Questo è il titolo di un convegno organizzato dall’Ordine dei Medici  l’11 maggio u.s. a Perugia presso il teatro dell’ONAOSI maschile. Il programma prevedeva una prima sessione dedicata agli interventi preordinati che hanno inquadrato il problema sia dal punto di vista clinico che epidemiologico, mentre la seconda parte è stata occupata da una tavola rotonda in cui i vari partecipanti, rappresentanti delle varie istituzioni hanno prospettato le possibili risposte al problema, ognuno per la propria specificità.
In questa tavola rotonda il mio intervento si è concretizzato in una lettura che molti colleghi hanno chiesto di poter avere e pertanto la propongo come editoriale.
Sta per iniziare una seduta ambulatoriale come tante. Attraverso distrattamente la sala d’aspetto salutando un gruppetto di pazienti che sarà arrivato anche da più di un’ora con la discutibile convinzione, così, di poter essere ricevuti prima degli altri e risparmiare tempo. Li guardo meglio e capisco subito che ci sarà da soffrire. C’è Maria di 88 anni con i suoi dolori alla colonna che non passano con niente. C’è Cesare che viene per sua madre in fase terminale per un’ascite carcinomatosa. C’è Giorgio, preoccupato perché la ricerca del sangue occulto nelle feci è positiva ( me lo ha anticipato telefonicamente già due e tre volte) e ci sono altri….Mi siedo e inizio a stampare ricette, ma la stampante comincia a fare i capricci. Arriva uno e mi dice che ho sbagliato l’esenzione dal ticket, arriva un altro e mi dice che non ho scritto la nota AIFA prevista per quel farmaco, un altro ancora con fare abbastanza aggressivo mi dice che al CUP gli hanno detto che dovevo applicare un codice RAO di urgenza e non l’ho fatto….si susseguono i volti, le parole, le richieste e intanto il telefono squilla…squilla.
Ho iniziato questo mio breve intervento con una narrazione, la narrazione di una classica e familiare seduta ambulatoriale e credo che molti medici si siano riconosciuti. Perché ho preferito partire da una narrazione? Perché è mia convinzione che per certi problemi, per certe situazioni, probabilmente un approccio narrativo sia più proficuo per comprendere e forse per curare. Assolutamente non vorrei essere frainteso: i numeri, le percentuali, l’EBM, la sperimentazione  restano la base ed i cardini per il metodo clinico, ma qualche volta però si dovrebbe avere la consapevolezza che possono essere  percorse anche altre strade, non è questione pertanto di aut aut, ma se mai di et et.
Vorrei proseguire questo mio  intervento andando indietro nel tempo, molto lontano, per trovare una traccia delle origini della nostra professione agli albori della nostra cultura occidentale e precisamente nella mitologia greca.
 La prima figura che incontriamo che abbia a che fare con l’attività medica è quella del centauro Chirone. Chi era Chirone? Egli era il più sapiente e il più buono dei Centauri ( creature abitanti dei boschi, su cui corpi di cavallo, al posto del collo, erano attaccati tronchi umani) e per questo era detto anche “dalla doppia natura”. In lui si riassumeva infatti la natura animale: il corpo e l’istinto e quella umana: la psiche, lo spirito. Da questa commistione originò il suo potere terapeutico. Tutti sappiamo come andò: venne ferito per errore da Ercole  con una freccia  avvelenata  che gli procurò dolori e tormenti indescrivibili nonostante le cure o meglio, la propria autocura. Il mito, quindi, pone l’accento sul paradosso di un guaritore, ferito a sua volta, che non riesce a guarire se stesso, sottolineando così la grandezza ed il limite  della nostra attività terapeutica. Jung da Chirone ha ripreso l’archetipo del guaritore ferito: l’archetipo racchiude in sé due polarità opposte, in Chirone infatti si compenetrano medico e paziente, guaritore e ferito. E’ un grande medico poiché conosce la propria ferita che simbolicamente lo unisce al mondo dei malati. Chirone non studia la malattia dell’altro, ma la riconosce.
Da Jung passiamo a Soren Kierkegaard di cui mi preme riportare questo pensiero:” Imparare a conoscere l’angoscia è un’avventura che ogni uomo deve affrontare se non vuole perdersi sia per non averla mai provata sia per esservisi sommerso”.
E’ mai possibile per noi  medici che si debbano o si possano cercare delle risposte ai nostri  problemi nella mitologia, nella psicologia o nella filosofia, perché?
Tutti noi quando apriamo la porta del nostro studio o entriamo nel nostro reparto ospedaliero, sappiamo che da quel preciso istante siamo catturati da un ruolo che, più o meno inconsapevolmente, in qualche modo abbiamo scelto. Ci viene affidato un compito, anzi il compito, che da quando esiste l’uomo è sempre quello, se pure storicizzato in maniera diversa. Parafrasando le parole di Melucci, “ci troviamo, quotidianamente, a dover trattare intrecci di corpo e anima, piccoli e grandi grovigli di dolore fisico, timori ed attese come faceva anticamente anche lo sciamano, senza però avere dello sciamano la fede nelle energie profonde  che governano il cosmo e il contatto sottile con l’umano che soffre e si interroga. Ridotti oramai come siamo a funzionari del sistema del welfare e nello stesso tempo terminali diun apparato scientifico-tecnologico gigantesco, di cui controlliamo appena qualche piccola area, ci troviamo a dover far fronte alla stessa domanda quotidiana che viene dagli strati più intimi della condizione umana: libera nos a malo. Ma per misurarci con l’aspettativa oramai smisurata dei pazienti che vogliono cancellare qualsiasi sofferenza e tacitare qualsiasi paura non possediamo altro che la nostra tecnica sempre più specializzata e settoriale”.
In quanti di noi era la consapevolezza di questo ruolo quando decidemmo di iscriverci alla Facoltà di Medicina? In quanti di noi era la  convinzione che solo una buona preparazione scientifica fosse sufficiente per fare il medico? Preparazione scientifica……. Il problema è proprio questo: preparazione, formazione, scienza.
Tutti noi abbiamo iniziato a lavorare con un camice bianco, immacolato e sempre tutti noi pensavamo che questo camice non si sarebbe mai sporcato. Forti di una formazione fortemente riduzionista eravamo convinti che tutto fosse lineare e che la nostra competenza e professionalità dipendesse esclusivamente dalla nostra oggettività escludendo qualsiasi tentativo di soggettività: la nostra e dei nostri  pazienti. Ma come è mai possibile operare, lavorare, prescindendo da noi stessi? Come è possibile prendere in considerazione solo quello che conosciamo e  pertanto, come dice Galimberti, inseguire come conoscenza solo quella del significato concettuale e ignorare quella del senso esistenziale? Senza rendercene conto nella nostra cura degli altri, come mirabilmente afferma Antonia Chiara Scardicchio nel suo saggio il Medico Claudicante, ci affidiamo ad un paradigma anestetico che molto presto però si rileva insufficiente e fallace. Insufficiente e fallace perché prende in considerazione solo quello che siamo in grado di spiegare ed esclude, con un’operazione che a suo tempo ci è stata insegnata, la storia del paziente e la nostra stessa storia e di conseguenza  la relazione fra noi ed il paziente e la relazione fra la storia mia di medico con quella del paziente.
Ci siamo mai chiesti perché ad un certo punto della nostra vita abbiamo deciso di fare il medico? Ci siamo mai chiesti o domandati quale la motivazione, la finalità o il perché? E ci chiediamo mai quando una volta aperta la porta del nostro studio o entrati nel reparto del nostro ospedale e i nostri pazienti ci sbattono in faccia la loro angoscia di morte come li affrontiamo? Neanche a farlo a posta ho usato il verbo affrontare che ha un forte sapore di gergo militare. Come si relaziona la mia angoscia di morte con quella del paziente che in questo momento magari sto ascoltando, ma probabilmente non sto sentendo? Queste sono domande cui è difficile dare una risposta, ma il semplice fatto di porgersele è senza dubbio un grande passo in avanti.
L’aumentato carico burocratico, i RAO, il budget, il Web 2.0 con la conseguente  consumerizzazione dei pazienti sono senza dubbio una fonte di continuo disagio. “Io se dovessi rendere conto solo al malato del mio operato non avrei nessuna difficoltà nel mio lavoro!” Questa è l’affermazione più frequente che circola nei momenti di dialogo rilassato fra colleghi, ma quanto ci rendiamo conto come queste parole abbiano il sapore della figura di medico onnipotente che basa sull’approccio lineare e paternalistico il proprio metodo e la propria epistemologia? Quanto ci rendiamo conto che questi sono si degli elementi turbativi, ma perché in fondo in fondo turbano la nostra consuetudine di un  approccio basato sulla conoscenza concettuale e nosografica, su una scienza fondata sull’astrazione, sull’incasellamento e che non tiene conto dell’analisi  della complessità, delle relazioni e dei legami che ogni uomo ha con la propria storia e con tutto il mondo che lo circonda.
Ed allora cosa conviene?
Ecco pertanto che al medico diventa una condizione necessaria “ ripercorrere la propria formazione nella sua dimensione  autobiografica”, ricostruire la propria “ Autobiografia“ la propria “Auto-Bio-Epistemologia” per imparare a diagnosticare con un’ottica diversa, un’ottica che comprenda la storia e le relazioni dei nostri pazienti e di noi stessi.
Con questa indicazione mi riferisco a delle esperienze ben precise come quella che in questo momento è ancora in fase di rielaborazione come il progetto finanziato  dalla Regione Puglia “Comun-I-care” coordinato dall’Università di Foggia da parte della già citata professoressa Scardicchio oppure le varie  esperienze di Laura Formenti della Bicocca di Milano e tutta la letteratura sulla autobiografia partendo da Jerom Bruner, Erikson, sino ad arrivare Duccio Demetrio e altri.
L’obiettivo del ripercorrere nella dimensione autobiografica la propria formazione è quello di far sviluppare come dice Goleman “un’intelligenza emotiva” che consiste nel poter comprendere e gestire le proprie emozioni sviluppando così una personalità flessibile e creativa capace di adattarsi alle più diverse situazioni con autocontrollo e fiducia in se stessi. Insomma come ci adoperiamo per favorire  l’empowermentdei nostri pazienti, dobbiamo imparare l’empowerment di noi stessi come curatori.
Lasciatemi ,però, chiudere tornando alla mitologia, al nostro Centauro Chirone che non potendo sopportare più il dolore e la sofferenza vuole morire, ma essendo immortale in quanto semidio deve chiedere l’intervento di Zeus il quale lo accontenta scambiando la sua immortalità con quella di Prometeo.
Ma poteva un guaritore della sua portata finire così? Senza lasciare una traccia tangibile? Assolutamente no, allora viene trasformato nella costellazione di centauro e così ancora oggi qualsiasi mortale può osservarlo mentre splende nel cielo.

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Tiziano Scarponi

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